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L'editoriale n.131

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Si fa presto a dire “risarciremo i ristoranti”. Oltre alla vacuità della promessa, c’è un’irritante ipocrisia di fondo. Dici “ristoriamo le attività colpite dal DPCM” e fingi di dimenticare
la filiera a monte. Chi risarcirà agricoltori, produttori di vino e fornitori varii?

Nightmare before Christmas. Abbiamo scelto un titolo forte, perché quello in cui siamo ripiombati è un incubo a tutti gli effetti. Con due aggravanti: ci eravamo illusi (ingenuamente) che il peggio fosse alle spalle e adesso, a differenza di marzo, abbiamo tutto l’inverno davanti. Ma è un titolo che vuole anche essere di buon auspicio, perché la speranza è quella di darci un orizzonte temporale, è quella di poterci svegliare dal brutto sogno entro Natale. Perché quello che stiamo vivendo, a livello sanitario, è davvero il peggiore degli incubi possibili: con tutto un deja-vu di medici e infermieri allo stremo, terapie intensive piene, conta quotidiana delle vittime, ospedali al collasso che speravamo davvero di non dover più rivivere. 

E allora diamoci questa speranza: speriamo di uscirne presto (con tutte le ovvie e scontate limitazioni del caso che realisticamente ci accompagneranno, a prescindere dall’ottimismo, fino alla fine della pandemia). Ma in questo momento, anche psicologicamente, ci piace ragionare per obiettivi. E il primo, il più ravvicinato, è rappresentato dalla speranza di salvare il Natale. Non per solidarizzare con Santa Claus e neanche per un’ingenua recrudescenza fanciullesca, ma perché l’indotto generato dalle feste natalizie, a questo punto, diventa ossigeno prezioso per tante attività commerciali che rischiano di morire. Perché dobbiamo fare di tutto per tutelare la salute ma non possiamo dimenticare che il tessuto socio-economico del Paese si regge sull’economia. Ed è proprio il fragile equilibrio fra esigenze diverse il vero obiettivo di questa fase.

Certo, poi bisognerà anche capire dove abbiamo sbagliato. Perché di errori ne sono stati fatti tanti e a tutti i livelli: politici, comunicativi ma anche comportamentali. Si è passati, nella più disinvolta schizofrenia, dal “coronavirus è poco più di un’influenza” al “moriremo tutti”. Ci siamo divisi in schiere di tifosi, dividendoci fra ridicoli negazionisti e terrorizzanti allarmisti. Il tutto mentre mancava una leadership capace di parlare chiaro alla gente, mentre si è cercato di nascondere la testa sotto la sabbia circa il ruolo avuto nella ripartenza del contagio dalla riapertura delle scuole (con l’impatto su un sistema di trasporti assolutamente inadeguato), mentre le posizioni anche più legittime invece di essere messe in discussione dall’avanzare del virus sono diventate intoccabili dogmi

Last but not least: una cosa il Covid ce l’ha insegnata. Pianificare in questo frangente storico è impossibile. Anche per questo motivo abbiamo deciso di uscire con questo numero a inizio novembre. Perché per noi resta sempre il caro vecchio “numero di Natale” ma vogliamo avere una forbice di tempo, la più larga possibile, per farlo circolare compatibilmente con decreti e restrizioni di cui al momento non conosciamo entità e durata. Ma noi ci siamo. E ci siete anche voi. Se state sfogliando questo numero nel suo formato cartaceo significa che stiamo vivendo una pseudo-normalità. Se lo state leggendo online a causa di qualche chiusura: abbiate solo un po’ di pazienza. Appena potremo uscire di nuovo lo troverete la fuori ad aspettarvi. E speriamo che questo incubo possa dissolversi in fretta e magari a bordo di un banco a rotelle.

L'editoriale n.131
   
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Matteo Grandi

A due anni leggeva Proust, parlava perfettamente l'inglese, capiva il francese, citava il latino e sapeva calcolare a mente la radice quadrata di numeri a quattro cifre. Andava al cinema, seppur accompagnato dai genitori, suonava il pianoforte, viaggiava in aereo, scriveva poesie e aveva una fitta corrispondenza epistolare con l'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini. A sei anni ha battuto la testa cadendo dagli sci. Del bambino prodigio che fu restano l'amore per il cinema, per la scrittura e per le feste natalizie. I segni del tracollo sono invece palesati da un'inutile laurea in legge, da un handicap sociale che lo porta a chiudersi in casa e annullare appuntamenti di qualsiasi genere ogni volta che gioca il Milan e da una serie di contraddizioni croniche la più evidente delle quali è quella di definirsi "di sinistra" sui temi sociali e "di destra" su quelli economici e finanziari. A trent'anni ha battuto di nuovo la testa e ha fondato Piacere. Gli piacerebbe essere considerato un edonista; ma il fatto che sia stata la sofferenza (nel senso di botta in testa) a generare il Piacere (nel senso di magazine) fa di lui un banalissimo masochista.