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Tutto è bene quel che finisce bene In evidenza

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Tutto è bene quel che finisce bene
Non che questo epilogo possa valere per la mia storia. Piuttosto, lo dedico a tutti quei cervelli in fuga che a Londra hanno trovato un lavoro conforme ai propri studi e interessi e ne hanno fatto un salvifico lasciapassare per quella rosa di beati cui tutti, in un modo o nell’altro, speriamo un giorno di poter accedere: il regno dei cieli. In altre parole, la dimora di chi ce l’ha fatta.

A disastrose premesse non poteva far seguito che un disastroso inizio. A un disastroso inizio non poteva far seguito che una catastrofe. Ed è così che il 2 marzo la catastrofe, il mio tirocinio, ha avuto inizio. Oggi sono trascorsi esattamente quattro mesi da quel fatidico giorno, e benché ne manchi ancora uno sono certa che le cose non cambieranno poi molto da qui a fine luglio, quindi tanto vale raccontare questo tirocinio per quel che è stato.

Valentina ed io, dopo l’esilarante primo incontro da Starbucks, abbiamo avuto carta bianca sui pezzi da scrivere. Parlate di cosa volete, andate a caccia delle notizie più interessanti, date ai vostri articoli un taglio accattivante. Questi i soli moniti cui far riferimento. Niente di meglio per potersi esprimere appieno e poter dar sfogo al proprio estro. O no? In realtà, quando si è liberi di fare qualsiasi cosa per carenza di direttive, il problema sussiste eccome. La libertà d’espressione non passa attraverso la mancanza di regole, ça va sans dire. Che ai tirocinanti venga offerta questa chance è dovuto al solo fatto che il tirocinio, ahimè, non ha valore formativo. Ci vogliono le dovute competenze per svolgere adeguatamente il ruolo del mentore. Individuare una notizia, riportarla secondo i dettami del buon giornalismo, scriverla in una lingua differente dalla propria quindi rivolgerla ad un pubblico altro, approfondirla quanto necessario con i giusti strumenti: sono tutti insegnamenti, questi, che esulano dall’improvvisazione, ed anzi richiedono un bagaglio d’esperienza che non si può pensare di poter trasmettere ad altri se non lo so si possiede in prima persona. Non puoi improvvisarti giornalista come non puoi improvvisarti ingegnere.

Inciso: so che la realtà dei fatti basta essa sola a smentire me, le mie idee, quella mia ultima affermazione. Parlo in linea teorica, piuttosto. Fortunatamente c’è ancora spazio per il buonsenso e l’illusione in un diario di bordo. Fine inciso.

Non puoi insegnare ad altri a fare del buon giornalismo se non sai fare del buon giornalismo, dico io. Fortuna l’impegno e la serietà dei giovani, i soli ingredienti pronti all’uso – gratuitamente, spesso e volentieri – onde risollevare le magnifiche sorti e progressive dei lavori abborracciati messi in piedi dai disonesti.

La libertà concessaci, ad ogni modo, aveva un suo prezzo: ogni articolo inviato al direttore poteva essere caricato nel portale internet del giornale con una serie infinita ed imbarazzante di errori grammaticali frutto del suo lavoro di revisione; e ancora, ogni tot articoli scritti in libertà ci veniva commissionato un pezzo in cui, pur parlando d’altro, eravamo costrette a focalizzare l’attenzione su di un certo personaggio italiano di spicco a Londra – di quegli italiani blasonati, per capirci – legato in qualche modo alla vicenda trattata. Non c’era di che lamentarsi, però: persino quando non avevamo idee a portata di mano il direttore era sempre pronto a suggerirci notizie tra le più strampalate, sorpassate, superficiali.

Almeno hai imparato a scrivere in inglese.

No: gli articoli in inglese non vengono mai corretti.

Magari sono perfetti.

Dubito: in alcuni casi, per mancanza di voglia, abbiamo tradotto gli articoli dall’italiano all’inglese utilizzando Google Translate. Va be’ che il nostro amor proprio ci spingeva a ricorreggere il tutto, ma tu – direttore – non riesci a renderti conto che quello che ti stiamo presentando altri non è che il frutto di una traduzione automatica? Un articolo pensato e scritto in italiano, tradotto solo successivamente e in modo vergognoso in inglese?

Una spiegazione per tutte queste incongruenze l’abbiamo chiesta. Fortuna vuole che le email siano testimoni facilmente rintracciabili. Abbiamo chiesto chi si occupasse della correzione degli articoli, secondo quale criterio venisse inserita pubblicità a persone o enti all’interno dei pezzi, in che modo potesse finanziarsi un giornale di questo tipo, che fine avesse fatto la vecchia sede, che fine avesse fatto il resto della redazione. Abbiamo chiesto tutte queste cose, ma invano. Le risposte che non volevamo, ma aspettavamo, non sono mai arrivate. La gran parte delle domande è stata più volte ignorata. Gli unici “chiarimenti” ricevuti sono stati quelli relativi alla sede – “La sede esiste ma solo per me, adesso. Presto ne avremo una nuova: non è semplice trovare il posto adatto” – e alla correzione degli articoli – “Si tratta di errori dovuti al programma di uploading. Ne parlerò quanto prima con il webmaster”. Che ve lo dico a fare: la sede è inesistente ancora oggi e gli articoli vengono tuttora caricati con molti errori. Soprattutto, non ho ancora conosciuto un solo membro della redazione. A dirla tutta, ho smesso di credere che qualcun altro, oltre a me, lavori per questo giornale. Sfortuna vuole che a breve arriveranno altri stagisti. Ad averlo saputo prima avrei tentato di contattarli e dissuaderli dal venire. Perché, sapete cosa c’è? Non è tanto dover lavorare per chi crede che munsulmani si scriva così ad essere un problema. Il problema, piuttosto, è dover lavorare con chi crede che i musulmani siano tutti dei terroristi. E ancora, il problema è dover lavorare con chi, di fronte ad una critica, risponde facendo uso di citazioni stantie (“Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”. Per chi se lo stesse chiedendo: no, non è Voltaire. Evelyn Hall, sua biografa, fu lei stessa a scrivere questa frase come sunto del pensiero del filosofo. Chi l’avrebbe mai detto che così facendo sarebbe riuscita a surclassare in termini di fama il suo oggetto di studi. Lungi da me dare lezioni, sia chiaro. Vi comunico questa curiosità solo perché il mio direttore è fermamente convinto che Wauzap – Whatsapp – si scriva in questo modo, ma si infervora non poco di fronte a questo qui pro quo). Infine, ma non per importanza, il problema è dover lavorare con chi, avendo intuito che il proprio tirocinante nutre dei forti e scomodi dubbi sulla natura del giornale, infittisce i sotterfugi, s’inventa nuove scuse, continua a non dare risposte, allenta la presa sulle scadenze, lo lusinga senza posa per il suo lavoro.

Appena tornata a casa, in Italia, approfondirò con chi di dovere le mie ricerche su questo giornale, il suo direttore, la rete di cui fa parte. Nel frattempo mi auguro di poter compilare il rapporto sul tirocinio nel modo più sincero e veritiero possibile, sperando che il bisogno di una firma a fine resoconto non significhi doverne stravolgere l’intero contenuto. E se mai dovessi cedere a qualche ricatto, be’, rimane pur sempre il diario di bordo.

 

Esiste una sconfitta pari al venire corroso

Che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo

 

(Saccheggio la splendida immagine dall’archivio di Geppo Lindo Ferretti http://geppolindoferretti.tumblr.com/)

Tutto è bene quel che finisce bene
   
Ludovica Marani

Mi chiamo Ludovica, ho passato il quarto di secolo e nel mio tempo libero adoro fare illustrazioni. Sono perugina, ma vivo a Londra ormai da un po'. Vi ricorderete forse quanto l'ho odiata questa città. Diario di bordo, la rubrica che curavo per Piacere Magazine quando mi trasferii di qua dalla Manica, ne è la riprova. Chi l'avrebbe mai immaginato che a un paio d'anni di distanza mi sarei sentita come a casa, qui. Sarà Porks in Wings, il mio blog illustrato, a parlare per me, di me, del mio precario equilibrio vita-lavoro tra Perugia e Londra.

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